Barnum

 

Di e con Elena Bucci

al pianoforte Dimitri Sillato

cura del suono, registrazioni e live electronics Raffaele Bassetti

inserti musicali Andrea Agostini

luci Loredana Oddone

scene e macchinismo Giovanni Macis

lampade Claudio Ballestracci

scene e costumi Nomadea e Marta Benini

assistente all’allestimento Nicoletta Fabbri

pubblico in prova Daniela Alfonso

foto di Piero Casadei e Patrizia Piccino

 

Il progetto Autobiografie di ignoti mi accompagna da molti anni con tutte le sue domande sulla scrittura, sull’improvvisazione, sul rapporto tra voce, parlato, canto.

Il bar che lo ha ispirato, in questa ulteriore trasformazione dello spettacolo, si avvicina all’idea di un circo: Barnum è il circo sempre diverso nel quale ci esibiamo, attraverso numeri messi a punto con precisione e fanfaroneria, con studiata esperienza e meticoloso ingegno o con l’arte dell’improvvisazione, la vertiginosa sequenza dei salti mortali che vanno dalla nascita all’adolescenza alla maturità, passando per le capriole dell’innamoramento, il passaggio nel cerchio di fuoco delle relazioni e la clownerie involontaria di fronte ai mutamenti veloci del nostro tempo.

Barnum è un’assemblea di personaggi resistenti, che si tengono bene avvinti alla loro autentica natura per non perdere la gioia irragionevole di stare al mondo. Parlano in poesia e in rima, cantano ballate, trasformano il parlato quotidiano in musica, perché non sia pornografico il racconto di vite vere, ma trasformato dalla lente di molti linguaggi.

Barnum è una scusa per scrivere senza essere scrittrice, cantare senza essere cantante e danzare senza essere danzatrice, è la lanterna magica delle immagini indelebili che mi hanno reso quello che sono  e dove risuonano il mio dialetto e le parlate e i canti impigliati tra i miei ricordi.

 

Ci sono momenti nei quali ci si pone le inutili inevitabili domande da dove vengo, chi sono, dove andrò e via così. Se l’epoca è particolarmente ostile, può capitare di cadere nella tentazione di tornare nel luogo dove si è nati, in cerca di familiarità e ricordi, calore e scintille di scoperte. In uno di quei giorni in cui ‘ti prende la malinconia’, capita di canticchiare le canzoni che hanno sancito le emozioni di molte generazioni, reinventando le parole per farle coincidere con la propria autobiografia. Sempre canticchiando capita di prendere un treno per il passato, per poi non ritrovare per nulla i luoghi della memoria ormai trasformati, non riconoscere più i volti, non desiderare affatto di incontrare nessuno se non i molti sé che si è stati nel corso del tempo. Se accade però di incontrare una figura familiare eppure sconosciuta, vestita fuori moda e con un quadernetto nero in tasca che ci fa segno di seguirla senza guardarci negli occhi, senza chiedere il nome, può essere che la si segua, per curiosità o per speranza. Questo signore mi porta ad un vicolo che sfocia nel mare, davanti all’insegna di un bar. Entra e io dietro di lui. Sulle orme dell’amata e sensazionale letteratura della metà dell’800, precipito in un clima dove mi riesce facile uscire dalle pareti del mio io ed immergermi nelle vite degli avventori. Vengo travolta dai loro pensieri, dalle loro storie, elaboro particolari che trasformano ogni vita in un romanzo. E ogni romanzo ha la sua musica e la sua canzone. Monica che non ha studiato ma che ha imparato le dimensioni del sogno e della poesia, il barista che non ha altro scopo che soddisfare tutti i bisogni secondari per fare esplodere l’abbraccio universale, Gigi il proprietario del ristorante vecchio stile, Ofelia solitaria che naviga nel dolore come nello champagne e nomina le mosche per avere compagnia e altri e altri...

Capisco quanto limitato fosse il mio sguardo sugli altri, quanto pericoloso sia questo bar dove resistenti naufraghi dal mondo d’Occidente si aggrappano ai tavolini e alle abitudini come fossero zattere e all’alcool come fosse un abbraccio. Che fare? Ristrutturare, tornare a credere, studiare, creare insieme ad altri, agire, interrogare, scuotere, ribellarsi? Quando Beo, che ha affittato un brutto cinema di provincia, propone ti tornare alla cooperazione solidale per la ricostruzione del clima culturale, il mio amico sconosciuto ride. Si rivela come colui che ha rinunciato a scrivere, a vivere e ad agire per tentare di guardare tutte le vite, in tutte le città del mondo, dalle terrazze di tutti i bar e di tutti i caffè... colui che ha rinunciato ad ogni appuntamento per navigare nudo nella sua immaginazione. Litigo e discuto con l’autore che adoro.

Si scuotono i tavoli, dondolano le lampade, cadono le bottiglie ed i bicchieri.

Le pareti del bar si aprono come scenari di cartapesta, rivelando molte persone in attesa di entrare, proprio nel momento nel quale noi tutti, dentro, vogliamo uscire.

Ci guardiamo. E ora? È l’alba e con gli occhi stanchi cominciamo a camminare verso un futuro sconosciuto, tutto intessuto di appuntamenti, progetti, cadute, tentativi, speranze...

In questo salto mortale, vedo tutte le infanzie e tutte le morti, vedo diventare tutti bambini e tutti re e regine, principesse e principi del loro destino.

Elena Bucci

grazie a Giorgio Minzi per avermi concesso il permesso di usare il nome che fa il titolo

a Barbara Morgagni per molte cose che non sto a dire, a Davide Reviati per avermi portato in luoghi che da sola non avrei mai trovato e a Marco Sgrosso per il sostegno morale