Regia e Drammaturgia: Roberta Spaventa

Con: Cristina Carbone, Francesca Iacoviello, Santo Marino, Alessandra Amerio

Disegno luci: Santo Marino

Costumi: Cristina Carbone

Sound Designer: Kheyre Walamaghe

Due bambine, due donne, percorrono i fili della loro infanzia tra antiche cantilene e pianti ininterrotti, trovandosi in un’adolescenza fatta di illusioni e speranze romantiche. Le loro sagome, delineate da giochi di luce e di ombra, danzano nel percorso della vita a ritmo spezzato, vittime di un sentire amputato, a volte violento. Cercano di definire il carattere, la propria identità, alla ricerca di una consapevolezza spesso faticosa, fatta di continui movimenti verso l’esterno, verso l’Altro.

 

Ma l’Altro è Barbablu, un mago mancato, che per avvicinarsi troppo al sole ha bruciato le sue ali, cadendo rovinosamente al suolo. L’incontro potrebbe essere fatale. La donna rimane abbagliata dal magnifico, un’ironia pungente e contagiosa che Barbablu sfoggia con esilarante savoir faire. La domanda che aleggia costante riguarda quella sua misteriosa qualità: il colore blu della sua barba, che la sposa ritiene non essere poi cosi blu. In una scena delineata da un’attesa pesante ed inquietante, Barbablu appare nel suo essere più fascinoso, sebbene al contempo pericoloso: un cantore di altri tempi con doni e gioielli preziosi.

La curiosità delle due donne si fa coinvolgimento affettivo e desiderio carnale, ma quella barba non smette di scintillare e tra partiture fisiche e stridenti vocalizzi il rapporto amoroso cede ud una violenza di fondo, sebbene si intraveda una ferita lacerante.

Il corpo di Barbablu si dimena, acquisendo sembianze quasi bestiali, per poi ricomporsi austeramente e compiere il rituale fatidico: la mattanza!

Le due donne, parti diverse di un unico femminile, potranno affrontare la dura realtà? Aprendo la porta proibita saranno in grado di sostenere la visione?

Barbablu è uno spettacolo che attraversa le dinamiche della violenza trasversalmente, per aprire a quella parte di sé a contatto con la ferita e permettere una riflessione prima di tutto emotiva, ma anche cognitiva, delle dinamiche di dipendenza e violenza. Nel finale ho rappresentato un ipotetico tribunale dove il popolo gioca a turno il ruolo di accusato e accusatore, in un eterno ciclo che pare esistenziale. In realtà ho voluto parlare del dolore, dello svilimento e della sfiducia che spesso l’essere umano vive su di se in prima persona, senza avere strumenti per compensare e trasformare questa mancanza. Così il circolo della violenza si instaura nel rapporto con sé stessi e con gli altri, creando dinamiche di difficile scioglimento. Nel sottrarsi a questo gioco e rimanere nella propria ferita, per poi sanarla attraverso un percorso personale, sta lo scarto finale dell’intero spettacolo che, pur seguendo le fila della fiaba, nella convinzione della responsabilità totale dell’essere adulto nel compiere violenza, cerca una risposta sulle radici di quest’ultima e delinea un’ipotesi di cambiamento possibile. La mia ricerca sulla violenza parte nel 2004, anno della tesi in Psicologia Clinica all’Università di Padova, e segue le fila di tutti gli spettacoli che ho scritto e diretto con la compagnia Peso Specifico. Lo spettacolo è stato presentato anche ad alcune utenti delle comunità di recupero dalle dipendenze “La Torre” e “La Mimosa” di Modena, seguita da una profonda ed emozionante discussione che mi ha fatto comprendere il potenziale non solo artistico, ma anche preventivo e formativo dello spettacolo stesso.

Roberta Spaventa

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