Con Santo Marino e Claudio Dagrezio

Drammaturgia di Santo Marino

Regia di Roberta Spaventa

Tele e Pupo di Santo Giliberto

Produzione Peso Specifico Teatro

 

Tecniche: Teatro d’attore con musica dal vivo, Kamishibai, Pupo Siciliano

Durata: 40′

LA TRAMA:

Sbucato da chissà dove, arriva un teatrino viaggiante guidato da due stravaganti cantastorie: Messer Vallando, il primattore dalla memoria traballante e Giufà, il suo servo-musicista, fedele e un po’ ingenuo. Nel tentativo di mettere insieme i ricordi, Vallando si serve del kamishibai: un antico strumento giapponese con cui accompagna la narrazione attraverso lo scorrimento di immagini dipinte. Queste figure, però, rimandano stranamente al mondo dei paladini di Francia e alla tradizione dei pupi siciliani, per lui misteriosamente confusa. Giufà, dal canto suo, sa che nel teatrino è nascosto un pupo e muore dalla voglia di vederlo. Così, dopo l’ennesima e insistente richiesta, Vallando decide finalmente di mostrarglielo e, aprendo il sipario su di un piccolo mondo abbandonato, estrae il Paladino Senza Nome, un pupo dall’aspetto molto umile che ha perso addirittura il filo: quello del braccio e… quello della storia! Nella disperata ricerca della sua vera identità, Giufà aiuta Vallando prendendo confidenza con il kamishbai e con le immagini in esso custodite. Così, i due cantastorie, si trovano ad evocare le vicende di un giovane che voleva diventare cavaliere, della sua prima lotta contro il drago, del duello con la temibile Rovenza dal Martello, di un’ Orlando furioso ridotto in mutande, fino all’improvviso colpo di scena. Lottando contro la vergogna di una memoria perduta, si rafforza sempre di più l’idea che la storia possa continuare in modo nuovo, trasformando una difficoltà in una possibilità. Il Paladino ritrova la sua anima e quel filo interrotto, considerato inizialmente un difetto, diventa il tratto distintivo del suo essere unico e ancora attuale.

TEMI PRINCIPALI:

Lo spettacolo, pur procedendo al ritmo dell’epica e toccando spesso e volentieri i toni del comico, cerca di mettere i bambini di fronte a questioni che possano innescare in loro alcune riflessioni. La prima riguarda il teatro stesso. Dato che i due protagonisti sono dichiaratamente dei cantastorie girovaghi, essi portano con loro il desiderio di raccontare e di raccontarsi, di costruire una memoria insieme a chi li ascolta, di adoperare più livelli (corpo, voce, musica, figura) per stimolare sensorialmente ed emotivamente il proprio pubblico. Ma, allo stesso tempo, la vicenda è costruita proprio su di una difficoltà legata alla memoria e, quindi, sulla necessità di recuperare la propria tradizione e andare alla ricerca della propria identità perduta. Qui entra in gioco il pupo dal filo rotto, metafora di ciò che viene indicato generalmente come difettoso e sbagliato ma che, a ben guardare, offre invece nuovi punti di vista, basati sulla forza della diversità e sul rispetto delle differenze, intesi come risorse per un sano e pieno sviluppo individuale e collettivo. La risoluzione della vicenda sta proprio nel fatto che il cantastorie, una volta riconosciuto il valore del pupo senza filo, può finalmente emanciparsi dai pregiudizi legati ad una visione del mondo (e del teatro) ormai divenuta stantia e cominciare così ad inventare nuove storie, più vicine ai bambini di oggi.

Dal punto di vista didattico, la visione dello spettacolo offre spunti per approfondire elementi del programma di diverse materie: storia, letteratura, educazione artistica, musica, educazione emotiva.

NOTE DELL’ AUTORE:

Questo lavoro nasce da una frattura che è avvenuta realmente all’interno della mia famiglia e che, per trasposizione, trova la sua dimensione fisica nel filo rotto che caratterizza il Pupo Senza Nome. Mio nonno, Santo Giliberto, era un artista calato in un mondo fin troppo concreto. Non si occupò mai di arte e di artigianato per mestiere ma, nell’arco della sua vita, riuscì ad evadere gli affanni della quotidianità di una famiglia numerosa, attraverso la produzione di scritti, dipinti, teatrini, pupi (ben 108) e persino piccole armature da fare indossare a noi nipoti durante il carnevale. Questa sorta di epopea personale, contrastata dalla ribellione di una generazione che cavalcava il boom economico, trova oggi la difficoltà di un recupero che deve necessariamente passare per frammenti scollegati, racconti incoerenti, riferimenti confusi. Le immagini che mio nonno ha lasciato sono le stesse che fino a qualche anno fa, a Catania, decoravano le ape-car dei gelatai ambulanti. Ed ecco che, scomparse anche quelle, gli episodi sono riemersi sulle tele di un puparo sconosciuto: senza nome, appunto. Il mio tentativo è quello di riuscire a far dialogare quel mondo con quello dei bambini di oggi, di trasmettere loro il senso dell’opportunità che nasce da una difficoltà. Non avere il filo, per un pupo, significa non poter muovere un braccio, significa spostare il proprio baricentro, ma penso che possa significare anche una diversa libertà: quella dell’essere unico e del poter scrivere con indipendenza la propria storia futura.